L’ALTRA ISRAELE: GLI ATTIVISTI E AMICI DELLA PALESTINA, UCCISI IL 7 OTTOBRE NEI KIBBUTZ

L’ALTRA ISRAELE: GLI ATTIVISTI E AMICI DELLA PALESTINA, UCCISI IL 7 OTTOBRE NEI KIBBUTZ

di Paola Mora - (ricerca indipendente)

Ho visto numerosi droni sopra ogni insediamento su un’immagine del computer che possiamo vedere in ogni comando dell’IDF”, la frase è stata pronunciata dal comandante dell’aeronautica israeliana Nof Erez in un’intervista, dove egli ammette che i suoi piloti hanno eseguito ordini impartiti dagli ufficiali il 7 ottobre. L’oggetto dell’intervista è un’inchiesta aperta dalle autorità di Israele e spinta dai famigliari delle vittime uccise nei kibbutz e nel Negev il 7 ottobre 2023, volta a chiarire che tipo di responsabilità abbia avuto l’IDF nella strage di massa inizialmente attribuita ai soli combattenti di Hamas, ma che, grazie a indagini di giornalisti indipendenti, si è scoperto non fossero muniti durante il loro storico blitz, degli equipaggiamenti di artiglieria pesante utili a produrre quel genere di distruzione in seguito documentata, quelle tipologie di morti carbonizzati. Edifici nei kibbutz assaltati il 7 ottobre da Hamas così come le automobili di civili rinvenute nel Negev, sono stati bruciati o anche chiaramente bombardati dall’alto, colpiti in alcuni casi da proiettili di carro armato. Alla procedura “Annibale”, l’ordine impartito subito dopo l’ingresso di Hamas nei territori occupati dai coloni, tutti i soldati israeliani erano addestrati da tempo. Sapevano cosa e come attuarlo, benché colti forse “apparentemente” alla sprovvista dall’ingresso impetuoso dei miliziani palestinesi. A mezzogiorno del 7 ottobre tale ordine era stato già diffuso a tutte le unità, anche se la decisione è partita in alcune aree di Israele già alle 7:18 del mattino, a esempio presso la base militare di Erez. L’ordine “Hannibal” fu imposto dopo che i generali nei sotterranei dell’edificio Hakirya, a Tel Aviv, si erano resi conto che soldati e coloni israeliani venivano fatti prigionieri da Hamas secondo un rapporto di una commissione delle Nazioni Unite, in cui si cita la testimonianza di un comandante: “Qualcosa del mio istinto mi ha fatto pensare che i miei soldati potessero trovarsi sui veicoli diretti a Gaza, sì, rischiavo di ucciderli, ma decisi che era la decisione giusta. Preferivo fermare il rapimento in modo che non venissero portati a Gaza”. L’operazione di Hamas “Al Aqsa” era iniziata all’alba delle 6:30 con un lancio di missili che precedeva l’incursione di terra vera e propria. Squadre speciali di sicurezza israeliane sono intervenute quasi contemporaneamente agli eventi mentre la “Divisione Gaza”, unità militare operativa al confine, ha fatto ingresso nei kibbutz molte ore dopo l’assalto e aspettando ai cancelli l’ordine di intervenire. Questo ha anche suscitato le polemiche della popolazione israeliana. Alle 8:30 del mattino i miliziani avevano già attaccato ben 6 basi militari al confine, di cui 2 limitrofe all’area in cui era in pieno svolgimento il festival musicale di “Tribe of Nova”, per poi penetrare in un secondo momento all’interno dei kibbutz con l’intento di catturare più ostaggi possibile. Nei primi 24 minuti dell’assalto, come documentato in inchieste, l’esercito israeliano ha fatto decollare almeno 6 aerei militari armati: due bombardieri F16, due F-35 e un paio di droni Hermes 450. A Be’ eri, uno dei kibbutz più colpiti, sono stati inviati due elicotteri Apache. I cittadini israeliani che vivono nei kibbutz al confine con Gaza, hanno scritto sui profili social in cui si confrontavano gli uni con gli altri in quelle ore di panico, che era arrivato loro un allarme via cellulare con l’indicazione di chiudersi in casa e rifugiarsi nei cosiddetti “Maamad”, (stanze armadio blindate o safe room ) che per legge sono predisposte in ogni appartamento situato al confine con la Striscia di Gaza, aree rischiose ove è possibile incorrere in bombardamenti o scaramucce tra le fazioni israeliane IDF e miliziani palestinesi.  Parleremo più avanti di come sono fatti questi “armadi”, del se è possibile aprirli dall’esterno una volta entrati per ripararsi. C’è chi il 7 ottobre vi ha trascorso più di dodici ore, utilizzando dei secchielli per fare i propri bisogni pur di evitare di uscire da lì anche solo per andare in bagno. I primi rinforzi israeliani sono arrivati nei kibbutz assaltati da Hamas intorno alle 13:30, a esempio nell’insediamento dei coloni di Be’ eri, secondo alcuni documenti giornalistici non esaustivi. Alcuni giornalisti parlano delle ore pomeridiane, molto dopo l’ora di pranzo. Le evacuazioni sono state impartite tardivamente, decisione presa dal governo quando era già buio. Non è stata mai concessa un’indagine internazionale indipendente su quel che è accaduto nei kibbutz il 7 ottobre. L’Onu sostiene che Israele sta da tempo bloccando una loro richiesta: “La commissione ritiene che Israele stia ostacolando le indagini sugli eventi del 7 ottobre 2023 e successivi sia in Israele che nei territori palestinesi occupati”. Torniamo allora, alla dichiarazione iniziale del comandante Nof Erez. Israele è maniacale nel detenere mappe sempre aggiornate sulle abitazioni site nel suo Stato ed anche relative a Gaza. La sorveglianza e il tracciamento avvengono anche attraverso il controllo delle conversazioni su cellulare, ed Israele è encomiata nel mondo per le alte tecnologie che la renderebbero inespugnabile. Ma il 7 ottobre qualcosa è andato storto. Chi conosce la Striscia di Gaza e la fortificazione intorno ad essa, sa che è sbagliato sostenere nessuno possa oltrepassare i blocchi imposti dai militari. In realtà, ci sono falle tra quegli ammassi di filo spinato e muraglie, motivo per cui storicamente si sono verificati incidenti tra militari israeliani e civili palestinesi. Resta vero che tuttavia, le basi militari e l’osservazione quotidiana degli spazi fortificati limitano eventuali problemi di ribellione, e li hanno sempre risolti egregiamente. Il 7 ottobre 2023 Hamas è riuscito a organizzare più gruppi di combattenti che in gran numero sono penetrati, rendendo fallibile la sorveglianza. A ogni modo, tutto ciò che concerne Gaza o i kibbutz, ogni comunicazione o movimento, è censito e monitorato da Israele grazie alle tecnologie, così come sono monitorati gli apparecchi telefonici e gli indirizzi social di chi utilizza Internet. Infatti, si è parlato di un rilevamento strano dell’IDF di centinaia di schede di cellulare israeliane, che sarebbero state attivate contemporaneamente dentro Gaza proprio prima dell’attacco (probabilmente dai combattenti di Hamas).  Quindi, se è vero come ha raccontato il comandante Nof Erez che i droni hanno cominciato a volare sulle case israeliane quando Hamas è entrato, è vero anche che l’IDF sapeva, a esempio, quali erano le famiglie che abitavano lì, i nomi, le attività che svolgevano nei kibbutz al confine, l’appartenenza per cittadinanza anche straniera. Qualunque operazione rischiosa di tipo militare, prevede l’ipotesi che in uno scontro possano essere coinvolte vittime civili. Questo è chiaro a tutti, lo sapeva Hamas e lo sapeva Israele che ci sarebbero stati dei morti, ma, le forze israeliane, hanno anteposto l’annientamento di Hamas alla salvezza degli ostaggi catturati dai miliziani, cosa indicibile in un paese democratico, e questo ha determinato la morte certa di gran parte dei residenti dei kibbutz anche durante la traversata come prigionieri nelle mani del nemico.  Il fine ultimo dell’operazione “Al Aqsa” forse ideata dal leader di Hamas Yahya Sinwar, era forzare la barriera militare nel Negev per provocare perdite di soldati nemici e penetrare nei kibbutz per la maxioperazione di “rapimenti per scambio”. Hamas avrebbe dato prova non solo di essere in grado di procurar danni alle principali basi israeliane che sorvegliano le aree di confine, ma anche di poter dettare regole a Israele, rovesciare il corso degli “accordi di Abramo” dove i palestinesi non avevano voce, costringere Benjamin Netanyahu al recupero di centinaia di ostaggi con degli accordi che avrebbero previsto il rilascio di prigionieri palestinesi detenuti in carcere dall’IDF  in cambio della liberazione di ostaggi catturati quel 7 ottobre.  L’Autorità palestinese impersonificata da Abbas ha perso potere e credibilità soprattutto dopo questa data storica, dal momento che i palestinesi si sono stretti maggiormente attorno al movimento Hamas, che è diventato il referente principale per possibili accordi futuri. Abbas è stato tacciato di debolezza, inettitudine nella gestione della situazione a Gaza. Benjamin Netanyahu non ha mai mostrato grande interesse per gli ostaggi catturati da Hamas, come si percepisce dal malcontento stesso delle famiglie dei rapiti che, ancora oggi, protestano contro il leader israeliano per convincerlo a concludere seriamente uno scambio definitivo. Poco se ne è interessato anche il presidente Donald Trump subentrato il 20 gennaio 2025 a Joe Biden, il quale ha minacciato “l’inferno in terra palestinese” se non vengono rilasciati tutti gli ostaggi israeliani, ma, anche qui, senza valutare il pericolo di lasciarli perire uccisi, proprio in virtù di nuovi attacchi israeliani o americani nella striscia di Gaza. Il leader Netanyahu ha però manifestato vivissimo interesse nella propaganda sul tema dei morti del 7 ottobre, esattamente come si è fatto dell’Olocausto uno scudo penale per i crimini del governo di Israele che, per via dello sterminio ebreo, si considera intoccabile dalla legge anche quando la elude. I combattenti di Hamas potevano prevedere il disinteresse di Netanyahu per i rapiti israeliani? Forse. Gli ostaggi, tuttavia, provocano sempre reazioni di rilievo quantomeno internazionale: un capo di Stato è necessariamente messo alle strette e deve prender posizione, occuparsi del rilascio dei rapiti di varia nazionalità, riportarli a casa dalle famiglie.  Ed è sul chi ha perso la vita il 7 ottobre che proveremo a concentrarci. Innanzitutto, Israele ha recentemente ridimensionato il conteggio dei morti del 7 ottobre riportandolo da 1400 a 1139: decessi attribuiti tutti alla furia di Hamas, dal momento che l’inchiesta governativa interna non ha ancora individuato le responsabilità dell’esercito, nonostante le prove addotte da giornalisti di inchieste giornalistiche indipendenti. Secondo le autorità israeliane molti cadaveri carbonizzati erano difficili da identificare, ragion per cui, solo in finale, ci si è resi conto che si trattava di “combattenti di Hamas” e non di “civili israeliani”. Quindi, partiamo da questo numero: 1139 morti che divideremo in 3 gruppi. Al primo gruppo appartengono tutti i militari israeliani rimasti uccisi nel corso degli scontri: sia quelli colti alla sprovvista all’interno delle basi militari nel Negev, sia quelli che hanno perso la vita nei kibbutz o al festival Nova nel tentativo di difendere i civili, indi scontrandosi faccia a faccia con i combattenti della resistenza palestinese, Hamas. Del secondo gruppo faranno parte tutti i civili uccisi al rave party nel Negev.

L’evento vedeva partecipare un enorme numero di adolescenti e giovani adulti (circa 3000 di cui, la maggior parte, è riuscita ad abbandonare indenne l’area presa d’assalto via terra dai combattenti, dopo il lancio di missili che apriva l’operazione della resistenza palestinese). In centinaia di civili sono sfortunatamente rimasti intrappolati all’interno del perimetro in cui si svolgeva il festival musicale, soprattutto bloccati lungo una strada di congiunzione con le basi militari che costeggiava l’area adibita alla kermesse. Su questa via bi-comunicante si erano piazzati gli agenti israeliani dell’antiterrorismo – i primi a essere intervenuti anticipando le azioni dell’esercito – nel tentativo di bloccare Hamas. La strada è quella da cui i miliziani di Hamas sarebbero passati entro pochi minuti dall’installazione dei posti di blocco delle autorità, poiché facevano ritorno dalle basi militari assaltate, in direzione Gaza, con degli ostaggi al seguito. È una via intermedia a due basi militari israeliane, che sbocca nell’insenatura ove erano parcheggiate le automobili degli avventori al concerto, anche ai margini della carreggiata. Non solo i giovani in fuga sono rimasti coinvolti nello scontro a fuoco sul campo, ma, anche chi è riuscito a raggiungere troppo tardi le proprie vetture è rimasto incenerito, presumibilmente da colpi dell’aeronautica israeliana inflitti dall’alto (come documentato da testate giornalistiche come Haaretz che hanno svolto inchieste). I video giornalistici relativi alle incursioni aeree israeliane sono stati anche dati per falsi ma, in definitiva, non esiste altro modo se non quello documentato per spiegare la carbonizzazione dei corpi nei veicoli, poiché Hamas non deteneva armi adatte a procurare quella tipologia di incendi e ustioni.  Molti giovani sono stati rapiti nella fase in cui Hamas fuggiva verso Gaza, ovvero miliziani che percorrevano coi propri mezzi di trasporto quella strada di intersezione, scontrandosi con le unità israeliane ivi sopraggiunte. Per quanto riguarda il concerto “Tribe of Nova – Universo Parallelo”, molto si è ipotizzato sulla decisione degli organizzatori di allestirlo proprio al confine con la Striscia di Gaza.

L’evento era stato anche spostato, rispetto al programma iniziale. “Universo Parallelo” non era originariamente previsto a Re’im, ma doveva aver luogo in una località più a Nord dove si dice che si fosse concluso un altro concerto nei giorni precedenti, tanto che un palco per fare esibire i cantanti era già bello che montato e pronto per l’uso. Ma gli organizzatori hanno improvvisamente spostato il rave party, due giorni prima dell’inizio. Non è chiaro se il vecchio sito era anch’esso in linea sull’asse dell’avanzata dell’attacco poi perpetrato da Hamas, nel qual caso, la modifica del luogo del festival sarebbe stata irrilevante. In fase di acquisto del biglietto presso l’azienda eventi che se ne è occupata, come scrivono alcuni utenti israeliani sui loro social, c’era l’obbligo di un numero identificativo dello spettatore, numero di telefono e link alla propria pagina Facebook.

Ma torniamo alle vittime del 7 ottobre. Al terzo gruppo assegniamo chi ha perso la vita in casa propria, all’interno dei kibbutz dove sappiamo essere stati allestiti scenari folcloristici dal governo di Israele per stupire l’opinione pubblica, far credere che Hamas era penetrato nelle villette solo per attuare uno sterminio e non semplicemente per rapire ostaggi. Nei kibbutz è nata la celebre e imbarazzante storia dei “40 neonati decapitati”. Una falsità per creare sdegno. Simbolicamente è stata allestita dal governo di Israele anche una culla insanguinata, meta turistica di leader occidentali in visita (da Elon Musk a funzionari politici statunitensi ed europei di varia levatura). Quei 40 neonati non sono mai esistiti, ma si stava cercando di coprire la morte di un paio di bambini carbonizzati, provocata dalle forze israeliane. Mentre, un neonato sembra esser stato colpito per errore a causa di un proiettile vacante durante gli scontri tra fazioni che avvenivano di casa in casa. Secondo testimonianze locali ed inchieste indipendenti, il 7 ottobre l’IDF è ricorsa ai carri armati in contesti urbani, mentre ai giornalisti era stato impedito di accedere ai kibbutz per documentare cosa stava accadendo. Hanno potuto farlo solo dopo un gran numero di ore che i villaggi erano stati ufficialmente liberati dalla presenza di Hamas. L’ordine “Annibale” aveva obbligato i soldati israeliani a procedere con l’annientamento di qualunque forma di vita si muovesse nelle circostanze, presumendo potesse trattarsi della presenza fisica di Hamas, e mettendo in secondo piano la salvaguardia degli eventuali civili presenti e coinvolti durante il blitz. Se al festival nel deserto del Negev si è proceduto con una strage “casuale” provocata dai colpi di mezzi militari israeliani oltre che dalle sparatorie sulla strada maestra, in cui i civili sono rimasti bloccati nel tritacarne, nei kibbutz è accaduto forse qualcosa d’altro, tanto che potremmo quasi ipotizzare uccisioni ed esecuzioni “volontarie o di convenienza”. Nel kibbutz Be’ eri che è quello dove si sono registrate più vittime, sono stati ritrovati innanzitutto corpi di miliziani di Hamas poi ricoperti da teli di plastica di cui ha documentato il giornalista David Muir. Quest’ultimo ha riferito anche su circa 14 civili che erano stati tenuti in ostaggio all’interno di una palazzina su cui sono rimasti impressi segni di munizioni israeliane, e di cui racconteremo in seguito. Tutti morti. Il 12 ottobre un portavoce delle brigate Al Qassam, Abu Obeida, riferiva che l’operazione Al-Aqsa mirava in primis a distruggere la Divisione Gaza – unità dell’esercito israeliano al confine – la quale è stata in effetti “attaccata in 15 punti”, un’azione cui è seguito l’assalto massivo a ben altri 10 obiettivi militari. Hamas aveva provveduto a trattenere il maggior numero possibile di prigionieri da scambiarsi con 5300 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Secondo più fonti, non tutti i combattenti di Hamas erano a conoscenza dell’operazione del 7 ottobre, di cui si sono occupate principalmente le brigate Al Qassam. I miliziani non potevano perder tempo a uccidere i civili, gli servivano vivi per condurli a Gaza. Ci si sarebbe dunque limitati a fronteggiare le unità antiterrorismo israeliane, i soldati nemici. Di certo, gli incursori di Hamas possono aver ucciso anche civili, cittadini israeliani particolarmente ostili durante le loro operazioni, lo hanno fatto, ma non era questa la finalità del loro intervento all’interno dei kibbutz (se è vero che la necessità era portare via più ostaggi che si poteva). È per questo, che il gran numero di uccisioni civili in casa, è sembrato poco coerente con le intenzioni dei miliziani. Durante tutta la loro scorribanda e con vari comunicati, il 7 ottobre ed anche i giorni seguenti, Hamas e le brigate Al Qassam sostenevano di non avere avuto alcuna intenzione di massacrare i civili nei kibbutz. Tutti i racconti di ostaggi rilasciati da Hamas nei mesi successivi attraverso scambi concordati con l’IDF, o di persone che, nelle loro case, si sono imbattute nei miliziani il 7 ottobre, parlano di comportamenti “moderati” di questi combattenti, di come essi ripetessero che volevano solo “portarli a Gaza” ma che non gli avrebbero fatto del male; quindi, con le armi in mano, intimavano di “seguirli senza fare storie” camminando sulle proprie gambe. Il giorno del blitz, vittime civili israeliane poco prima di essere uccise, sono riuscite a contattare telefonicamente i parenti cui raccontavano che stavano bene e che però sentivano spari, per cui si respirava una “situazione di pericolo”. Sui numeri delle vittime del 7 ottobre regna ancora confusione. Prenderemo alcune stime rilasciate ai giornali dalle autorità israeliane per farci un’idea sommaria: 331 vittime sono i soldati e gli agenti di polizia israeliani deceduti, cui dobbiamo aggiungere 13 membri dei servizi di soccorso. 339 circa, sono i civili rimasti ammazzati – da spartirsi tra quelli presenti al festival musicale nel Negev e quelli uccisi nei kibbutz. Arriviamo quindi a 683 morti in un periodo dove ancora stavano identificando il rimanente dei cadaveri, e cioè infine, circa altre 456 persone uccise oltre quelle già segnalate. Dopo l’errore iniziale di 1400 morti totali, il governo di Israele riferiva che fossero circa 1139 i morti accertati del 7 ottobre, ribattezzato “sabato nero”. I civili deceduti solo nell’area del festival sarebbero infine 364 secondo i dati di cui dispone Wikipedia. 364 è anche il numero di alberi piantati in memoria dei giovani israeliani morti il 7 ottobre nel kibbutz Re’im, in un memoriale allestito tempo dopo dalla comunità, in occasione del “capodanno degli alberi”.   I civili rimasti uccisi nei kibbutz, sono invece i rimanenti, a questo punto circa 431 persone. Apparentemente, sembra che il conteggio dei morti nei kibbutz sia avvenuto e reso accessibile per ultimo. Specifichiamo: non è chiaro se le vittime identificate postume nei kibbutz fossero militari o civili israeliani, ma supponiamo pure che si tratti di civili. Non è importante. Sui kibbutz abbiamo notizie comparse sui giornali con allegate testimonianze dei residenti: 108 morti nella comunità di Be’ eri; 117 vittime a Kfar- aza; 2 vittime civili a Nir Oz (nonna e nipote, Carmella e Noya Dann di anni dodici); 15 vittime a Holit;  3 persone sono sicuramente morte a Nirim. Il resto – circa 186 nei vari altri kibbutz – non è chiaro se fossero civili ma, abbiamo detto, supponiamo di sì.  Non sono tanto i numeri che ci interessano, servono solo per ricostruire alcune dinamiche. Nessuno si è mai preoccupato di raccogliere informazioni sulle proteste in corso dopo il 7 ottobre a Tel Aviv contro Benjamin Netanyahu. Per la verità si protestava anche in precedenza, ma gli oppositori politici non si sono fermati per solidarietà col governo in carica, neanche dopo l’ingresso di Hamas in Israele, contrariamente a quanto il governo di Netanyahu poteva aspettarsi o sperarci.  I manifestanti corrispondono per la maggior parte a fazioni dell’opposizione politica, ma anche vi si sono uniti proprio i familiari delle vittime del 7 ottobre e coloro che ancora pregano per un ritorno a casa dei propri cari rapiti,  su cui il governo israeliano non fa abbastanza ed anzi, Netanyahu è persino responsabile della morte di parte degli ostaggi che erano in mano di Hamas, rimasti uccisi per via dei bombardamenti a tappeto ordinati ed effettuati dalle forze armate d’Israele nella Striscia di Gaza.

Esiste un’altra Israele di cui parleremo adesso, sommersa dagli interessi territoriali, poco visibile perché ci impediscono di vederla.

Nir Mehir è segretario generale dei kibbutz. Qualche mese fa rilascia un’intervista al giornale Haaretz in cui ritiene di poter affermare che dopo il 7 ottobre i kibbutz “stanno virando più chiaramente a destra” a favore di Netanyahu.  L’intervistatore, Meirav Moran, gli chiede: “I kibbutz di fronte a Gaza sono sempre stati contrassegnati come di sinistra sulla “mappa politica israeliana”. Rifletti le loro opinioni?“. Mehir risponde: “L’atteggiamento verso il conflitto e la sua soluzione è destinato a cambiare. Molti dei residenti che hanno vissuto il 7 ottobre non sopportano di sentire l’arabo e vogliono vedere Gaza cancellata. Sono loro le nuove “vittime della pace”. Pochissimi dei residenti dei kibbutz, le cui case segnano il confine, pensano oggi a differenza di ieri che le persone che vivono dall’altra parte siano brave persone. Non riescono a superare razionalmente l’esperienza emotiva. Il trauma è più forte della loro visione del mondo”. Significa che c’era una parte della popolazione di Israele pacifica e amica dei palestinesi??? Dall’intervista emerge una spaccatura: tutti i kibbutz sono collegati alla “società dei kibbutz generale” che è sotto Israele, ma, evidentemente, sussistono differenze di visione tra i residenti, i quali non hanno tutti la medesima opinione su Gaza rispetto al progetto di sterminio del governo di destra di Benjamin Netanyahu. Nir Mehir si occupa ufficialmente dei kibbutz nel loro insieme, e crede giusto che la popolazione si sposti politicamente a destra, anzi è felice di guidare questa mossa: “Sono felice di passare alla storia come la persona che ha abrogato la storica alleanza tra il movimento dei kibbutz e i classici partiti di sinistra”. Mehir ha ben chiaro il ruolo storico del kibbutz, afferma che la “prima missione” dei kibbutz era “conquistare la terra. Non è un caso che ovunque si desiderasse impadronirsi di una parte della Terra d’Israele, sono sorti dei kibbutz”. Ed è chiaro nel voler continuare questo tipo di missione, considerando persino gli attuali kibbutz come “avamposti civili”. La discussione nasce per il fatto che Hamas è entrato principalmente in insediamenti che appartenevano ai cosiddetti “residenti pacifisti”, i quali maggiormente si opponevano all’ideale della destra radicale sostenuta da Netanyahu. Era opinione condivisa che alcuni dei kibbutz in Israele situati al confine, a differenza di quelli formati dai coloni più aggressivi in Cisgiordania, fossero una manifestazione di “uguaglianza e armonia” che maggiormente trovava espressione in parte nella sinistra socialista. Cioè, coloni israeliani che aiutavano i palestinesi ad inserirsi armonicamente in mezzo a loro. Eventualità insopportabile per Netanyahu, che sente invece necessità di conquistare Gaza e il suo mare ricco di risorse energetiche per inglobarla nell’unico grande Stato di Israele.  Ecco perché si parla di discronia tra “kibbutz di sinistra e di destra”, una crasi della maniera di intendere lo Stato di Israele, con idee differenti puntellate in più strati della popolazione israeliana e visioni diseguali o opposte sul tipo di relazioni future da coltivare coi “palestinesi cittadini di Palestina”, o anche futuri cittadini di Israele. Per cui, non tutti i coloni israeliani mirano a uccidere il Popolo palestinese. C’è chi desidera un doppio Stato, e chi invece immagina di integrare i palestinesi abbattendo le barriere erte su Gaza ma senza sterminio. Questo fatto, potrebbe spiegare l’insensibilità di Netanyahu nei confronti di alcune di queste famiglie israeliane che vanno a protestare per chiedergli di impegnarsi di più per la liberazione dei propri cari, ancora prigionieri di Hamas; o che pretendono risposte sulla strage del 7 ottobre dal momento che non gli si vogliono dare: semplicemente, non erano e non sono suoi elettori, di destra. Ma c’è di più.  Prima di analizzare cosa sta accadendo oggi a Gaza – 29 marzo 2025 (dove da circa tre giorni sono cominciate delle proteste, apparentemente contro il movimento Hamas e non soltanto contro gli attacchi di Israele, dopo una tregua temporanea già fallita facente parte di un accordo in fasi, di cui solo la prima si è conclusa per poi riprendere i combattimenti a causa delle scuse addotte da Netanyahu), entriamo nelle case delle vittime del 7 ottobre.

Non analizzeremo la mattanza di giovani israeliani che erano andati all’evento nel Negev su cui ci sarebbe da aprire una parentesi sulle sostanze psicotrope, stupefacenti, funghi allucinogeni, cocaina, chetamina consumati in grandi quantità proprio durante il rave party (molti ragazzi non avrebbero mai potuto essere in grado di distinguere se fossero stati colpiti da israeliani, palestinesi, o entrambi, mentre provavano a fuggire dal festival a Re’im); ma ci soffermeremo su chi è morto in casa propria, presumibilmente ucciso dai miliziani di Hamas anziché venir rapito per essere portato a Gaza.

Una delle vittime identificate più famose è Hayim Katsman, 32 anni, cittadino israeliano americano di Seattle con un dottorato di ricerca dell’Università di Washington, premiato nel 2020 per il miglior articolo di laurea all’”Association for Israel Studies”. Egli conduceva ricerche mentre risiedeva nel kibbutz Holit, dove è stato ucciso assieme alla sua vicina di casa. Il suo corpo è stato trovato nell’armadio anti-bombardamento.  Significa, che lo hanno aperto e hanno sparato.  “La gente dice che mio figlio si è attirato addosso il 7 ottobre come se avesse invitato i terroristi a casa sua”, è stata una testimonianza molto strana rilasciata dalla madre di Katsman ai giornali. Hayim si opponeva all’occupazione israeliana e si rifiutava di visitare insediamenti prettamente israeliani. Era coinvolto in gruppi di attivisti, uno in particolare il “Machsom Watch” (in ebraico posto di blocco) nato nel 2001, e celebre poiché i suoi affiliati – in gran parte tutte donne, e Hayim era un’eccezione – organizzavano turni di “presenza protettiva” per le comunità palestinesi nelle colline di Hebron. Queste donne denunciavano abusi e violazioni dei diritti dei palestinesi informando su ciò che accadeva al di là del muro di separazione.  Il giovane Katsman, al momento della sua morte nel kibbutz Holit, aveva iniziato da poco a lavorare come docente di filosofia e sviluppava ricerche sul movimento sionista e “religione sionista”. Si opponeva all’ordine etno-nazionalista del governo di Israele e sosteneva l’uguaglianza per tutti. Era noto negli ambienti che contano, in America e in Israele dove si trovava, appunto, per motivi di ricerca. Secondo resoconti, Hayim è morto usando il suo corpo per proteggere la sua vicina di casa, Avital Alajem, dai proiettili mentre erano entrambi chiusi in un maamad (armadio di sicurezza). Hayim ha scritto la sua tesi di laurea sul nazionalismo religioso in Israele/Palestina. Nella primavera del 2019 aveva iniziato a intraprendere uno studio indipendente con il curatore editoriale di Jacobin Daniel Bessner. L’ultimo saggio di Hayim per lo studio indipendente di Daniel riguardava: la strategia di sinistra, in particolare la strategia per la sinistra israeliana. Hayim scrisse un articolo a questo proposito, poi pubblicato, sulla scia delle elezioni israeliane dell’aprile 2019 e del culmine elettorale nel novembre 2022 che diede al primo ministro Benjamin Netanyahu, i risultati di cui aveva bisogno per costruire una coalizione stabile: “la più a destra nella storia di Israele costituita esclusivamente da partiti di centro-destra, estrema destra e ultraortodossi”. Secondo il giornale HaaretzHayim Katsman analizzava ciò che Netanyahu aveva dichiarato prima delle elezioni, ovvero che avrebbe lavorato per annettere la Cisgiordania con conseguente creazione di uno stato ebraico di apartheid de jure (piuttosto che meramente de facto)“. Hayim non era semplicemente un “attivista per la pace” ma era un “pensatore politico di sinistra per uno stato non esclusivista e in effetti non etno-nazionalista, in grado di incorporare gli interessi e le preoccupazioni sia degli israeliani che dei palestinesi”.

Hayim, crediamo, sarebbe rimasto inorridito dalla risposta del governo israeliano alla sua morte e alle morti di altri civili“, ha sostenuto in un’intervista alla CNN il fratello di Hayim, “…lui non si sarebbe sentito a suo agio con un individuo, un gruppo o un governo che usasse la tragedia del suo omicidio per giustificare l’uccisione di persone innocenti“. In uno stralcio di suo lavoro di proposta per una sinistra israeliana più forte, Hayim Katsman scriveva: “Nonostante l’influenza politica marginale di questi ultimi negli anni ’60, il movimento sionista religioso ha avuto molto successo nel portare avanti il ​​suo controverso progetto di colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Oggi, infatti, la destra sionista religiosa è forse il blocco più influente nella politica israeliana. La sinistra israeliana contemporanea ha quindi molto da imparare da essa. Nella prossima sezione evidenzierò le tensioni tra sionismo e liberalismo. Poi, mi dedicherò a delineare come potrebbe apparire un sionismo non etnonazionalista. Infine, analizzerò le cause principali del successo religioso sionista per trarre alcune lezioni pratiche per la sinistra israeliana. La sinistra israeliana oggi è al punto più basso. Ma non è detto che sia così”. Hannah Wacholder Katsman, sua madre, a un anno dal 7 ottobre sapeva che affrontare l’anniversario della morte di suo figlio sarebbe stato difficile, ma elaborare il lutto in tempo di guerra è stata per lei una sfida. Hayim, specializzato nel sionismo religioso di destra e devoto attivista per la pace, aveva interessi e hobby eclettici che coltivava parallelamente all’insegnamento e alla ricerca. La sua tesi era dedicata a “tutte le forme di vita che esistono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo“. Sua madre Hannah ha affermato che il suo anno di lutto ha incluso l’esperienza di essere stata “urlata contro” mentre partecipava a raduni e manifestazioni a sostegno delle famiglie di chi è ancora ostaggio a Gaza, dove lei sostiene l’idea di un accordo per un cessate il fuoco. “C’è stata molta ostilità nei confronti delle famiglie degli ostaggi e degli attivisti per la pace come mio figlio“, ha svelato sottolineando commenti “offensivi” che gli “israeliani di destra” (seguaci di Netanyahu) hanno rivolto contro le vittime del 7 ottobre appartenenti a famiglie politicamente schierate a sinistra, incolpandole del loro destino. Facendo notare come alcuni esperti israeliani hanno commentato che “presto diranno che gli ostaggi si sono rapiti da soli“, la madre del ricercatore Katsman ha svelato di “identificarsi” con quel sentimento perché “la gente dice davvero cose del genere; che Hayim se l’è cercata, come se avesse invitato i terroristi a casa sua e perché era un attivista per la pace. Il sostegno privato e comunitario che ho ricevuto quest’anno è stato enorme“. Sentire denigrazione nei confronti di suo figlio e di altre vittime, sperimentare l’ostilità durante gli eventi pubblici è stato doloroso. La donna ha osservato che nei mesi successivi alla morte del figlio ha ricevuto “molto più sostegno dal governo degli Stati Uniti” che da quello di Israele. Il ragazzo era cittadino americano. Nessun rappresentante del governo israeliano ha avuto contatti di persona o telefonici con lei o la sua famiglia, né ha partecipato al funerale, né le ha fatto visita durante il lutto. Wacholder Katsman cresciuta a Cincinnati, dove suo padre, rabbino, insegnava all‘Hebrew Union College è tuttora attiva nella politica statunitense come membro del consiglio di amministrazione degli American Democrats in Israel. Sebbene abbia concentrato le sue energie nell’ultimo anno nel commemorare il figlio assassinato, ha affermato di continuare a impegnarsi nelle elezioni statunitensi (prima che fosse eletto Trump), e di credere che la vicepresidente Kamala Harrisabbia dimostrato di essere una forte sostenitrice di Israele”. Allo stesso tempo, ha detto di temere “cose ​​estremamente preoccupanti” che Donald Trump ha detto sugli ebrei e per i suoi sfoghi ai raduni. “Non è qualcuno che vogliamo al comando del paese. Non andrà bene per Israele: non andrà bene per nessuno se gli Stati Uniti affondano e noi affondiamo con loro. È una situazione molto, molto spaventosa“.

Se il giovane israeliano Katsman era un “sostenitore dei palestinesi”, se tutti lo sapevano, per quale ragione Hamas lo ha ucciso senza pietà scovandolo nell’armadio anti-bombardamento di casa sua? Ed è stato Hamas a giustiziare gli attivisti nelle stanze di sicurezza, o può essere stato qualche militare della squadra antiterrorismo di Netanyahu, entrato nei kibbutz per il motivo di cacciare Hamas, ma che può aver approfittato per eliminare gli oppositori del governo? Quanto fastidio davano al governo di destra di Netanyahu, gli attivisti per la pace, l’altra Israele che lottava per una coesistenza pacifica con gli abitanti della Striscia di Gaza? E Hamas era d’accordo con Netanyahu o è semplicemente simbolo della resistenza, i cui movimenti di ribellione possono essere stati presi a pretesto da Netanyahu, per straziare di sangue la Palestina? La versione del governo e dei militari israeliani che durante l’assedio di Hamas hanno ispezionato le case per cercare eventuali sopravvissuti, è che il trentenne Katsman è stato ucciso dalle pallottole di Hamas. Da testimonianze pervenute dai cittadini israeliani, molti di loro si sono rifugiati in questi armadi abbastanza spaziosi, trasformandoli in delle trincee e cercando di bloccare ulteriormente la maniglia d’apertura per evitare che dall’esterno qualcuno riuscisse ad aprirli, portandosi all’interno acqua e cibo senza mai uscirne, ma anche senza avere cognizione precisa di cosa stesse accadendo fuori dai maamad, dove si udivano suoni di spari e rumori. Unico contatto col mondo esterno era il cellulare da cui partivano le chiamate ai parenti per rassicurarli sulle proprie condizioni. Secondo ricostruzioni dell’esercito di Israele, le porte delle case venivano abbattute da Hamas con degli esplosivi, per poi far saltare in aria anche la porta blindata delle stanze di sicurezza.

Un sedicenne di nome Rotem, la cui madre Deborah Shahar di 50 anni, cantante americana israeliana nata nel Missouri, e il padre Shlomi Mathias,  insegnante di musica mista araba ed ebraica, sono stati colpiti da proiettili nel kibbutz Holit  (e anche Rotem è rimasto colpito, non gravemente dal momento che il corpo di sua madre gli ha fatto da scudo, tant’è che è sopravvissuto), ha raccontato di esser rimasto nascosto per circa 12 ore nel maamad, inviando messaggi di aiuto col suo cellulare prima di venir salvato. Rotem ha sostenuto che gli assassini dei suoi genitori, “ridevano dopo aver sparato”. Il racconto della sua famiglia è scisso in più fasi che hanno inizio quando al mattino, subito dopo l’attacco missilistico di Hamas, Deborah telefona i propri cari per dire che sta bene, ma che sente rumori di vetri rotti e persone fuori dalla loro abitazione parlare in arabo. Deve essere stato per questo che col marito e con il figlio Rotem si è precipitata nella stanza di sicurezza la cui porta, successivamente, è stata buttata giù con dell’esplosivo. Nella deflagrazione suo marito Shlomi ha perso un braccio poiché in quell’istante stava tentando di spingere un materasso contro l’anta d’ingresso del maamad, per impedire agli assalitori di entrare. Secondo il racconto di Rotem, che non ha visto in faccia gli assassini, sua madre era col corpo sopra di lui per proteggerlo quando qualcuno ha sparato, e poi è andato via ridendo. Nelle ore successive, il ragazzo è riuscito a telefonare i soccorsi che gli indicavano come curare la ferita di proiettile procuratagli dall’arma da fuoco, la cui violenza era stata ammortizzata dal corpo di sua madre, rimasta uccisa. Rotem si è nascosto sotto una coperta della lavanderia, e lì è rimasto anche dopo che qualcuno ha dato fuoco alla casa. Secondo lui, alcuni uomini sono entrati per altre due volte, come se volessero controllare chi fosse rimasto vivo o cercassero qualcuno, prima di appiccare l’incendio. Cosa inusuale se compiuta da Hamas, dal momento che plausibilmente i guerriglieri stavano cercando di uscire dai kibbutz quando è sopraggiunto l’esercito israeliano, figurarsi l’attenzione di entrare per ben tre volte nella stessa casa per poi dar fuoco. Le due sorelle di Rotem, sopravvissute, si erano nascoste in uno degli appartamenti adiacenti, pare di capire, alla medesima abitazione. Hanno raccontato anche loro di aver sentito urlare, spari, e rumori caotici provenire dall’esterno.   Shlomi e Debbie Shahar sponsorizzavano la coesistenza pacifica con i palestinesi. Shlomi aveva fondato una scuola bilingue a Be’ eri, l’unica nel sud di Israele (di cui sentiremo parlare in un’altra testimonianza sugli avvenimenti del 7 ottobre). 300 ebrei e palestinesi studiano fianco a fianco in questa scuola fino alla sesta elementare (Fonte: zdfheuthe), ma questa non è generalmente una procedura consentita in Israele. Il problema della società israeliana è che un bimbo ebreo non può incontrare un bimbo arabo finché non frequenta almeno l’Università. Ed ecco una coincidenza: Adrienne Neta originaria della California, è stata uccisa in casa sua il 7 ottobre. La donna credeva che culture diverse potessero convivere e si opponeva alla repressione di Netanyahu. Aveva cresciuto 4 figli nel rispetto del prossimo e soprattutto dei palestinesi, iscrivendoli in una scuola bilingue sperimentale: imparavano l’ebraico e l’arabo. È stata l’IDF a confermarne la morte ai familiari dopo aver effettuato un esame del DNA, ma i militari non hanno tuttavia fornito spiegazioni sulle circostanze specifiche della dipartita. Adrienne era al telefono coi figli, quando  avrebbe detto loro di aver udito spari fuori casa. Poi, è evidentemente morta e non ha più comunicato con nessuno da quel cellulare. Sul sito ufficiale della Comunità ebraica di Milano, in uno stralcio dedicato, leggiamo che i “maamad” progettati per proteggere dalle schegge dei razzi, costruiti in cemento armato e con pavimenti spessi 30 cm, porte e finestre in acciaio o ferro a tenuta stagna, alcuni di essi muniti di chiavistello interno, sono fatti per poter essere aperti anche da fuori… “dai soccorsi civili”.     

       

Altra donna uccisa nei kibbutz è Cindy Flash originaria del Minnesota, moglie di un israeliano rimasto anch’egli ucciso. La figlia di Cindy, Keren, è venuta a conoscenza tramite i militari dell’IDF della circostanza che i suoi genitori non ce l’hanno fatta a sopravvivere, ritrovati nella stanza di sicurezza della loro casa a Kfar Aza, in cui erano tornati a vivere una settimana prima dell’attacco di Hamas. L’ultimo messaggio di Cindy – chiusa nell’armadio – alla figlia, è stato alle 16:59 di quel sabato “Stanno entrando in casa”. Poi, più nulla, nessun segno di vita. I residenti dei kibbutz erano rimasti senza assistenza diretta per ore, poiché i militari tardavano a soccorrerli ed erano operative le sole squadre di sicurezza addette a ogni villaggio; ed è la ragione per cui, in attesa, ci si rifugiava nelle stanze di sicurezza come le stesse autorità consigliavano. Sul kibbutz Be’ eri vi sono testimonianze secondo cui i primi rinforzi israeliani dell’esercito sarebbero arrivati dopo le 13:30, con evacuazioni ordinate solo in tarda serata. Si presume che, nel caso di Cindy Flash, morta nel kibbutz di Kfar Aza, l’esercito stesse già combattendo abbondantemente contro Hamas nel circondario quando lei è stata uccisa.  Prima di intervenire, i soldati erano rimasti asserragliati ai cancelli dei kibbutz quasi come ad aspettare che Hamas recuperasse gli ostaggi. Le testimonianze parlano di un intervento tardato per circa 10-12 ore rispetto alle prime avvisaglie del mattino presto. A Be’ eri, sono trascorse circa dieci ore prima che l’esercito si decidesse a intervenire in un numero sufficiente. Come emerge da un’inchiesta cui accenna “Inside Over”, parrebbe che la Divisione Gaza (unità militare la cui area operativa è proprio quella al confine con la Striscia), non era stata avvisata di quanto stesse accadendo a Be ‘eri fino alle ore 16:00 del pomeriggio. I rapimenti, tuttavia, si sono concentrati al mattino. Anche nel caso di Cindy come racconta sua figlia Keren, la donna era conosciuta poiché aveva in passato protestato contro le azioni militari israeliane a Gaza, per proteggere i diritti violati del Popolo palestinese. “Ogni volta che c’era un’operazione militare, mia madre protestava sempre”.  Cindy si batteva da anni per i palestinesi.

Altra vittima uccisa all’interno di una casa, nel kibbutz Be’ eri è Vivian Silver di 74 anni, attivista pacifista canadese-israeliana, per lungo tempo direttrice dell’”Arab Jewish Center For Empowerment Equality and Cooperation”, la quale ha organizzato progetti per unire le comunità israeliane con quelle della Striscia di Gaza e Cisgiordania. Nel 2014 aveva fondato il movimento “Women Wage Peace” per promuovere la pace tra le donne di tutte queste comunità. “Migliaia di donne israeliane e palestinesi che marciano insieme nel deserto, vestite di bianco, cantando e ballando per la pace, spettacolo difficile da ignorare, questo l’obiettivo di Women Wage Peace che riunisce donne religiose e laiche palestinesi e israeliane di destra, centro, e sinistra politica per chiedere una risoluzione politica al conflitto”, si legge in un articolo dedicato al movimento.

Anche Tamar Kedem-Siman è una vittima di quel terribile giorno: attivista anch’ella per i diritti delle donne, stava per diventare capo del consiglio regionale di Eshkol. Figlia di Gadi e Reuma Kedem, la sua famiglia apparteneva ai fondatori del Kibbutz Ein Hashlosha. Era stata una studentessa del programma “Percorsi per generazioni” al Kaje Academic College. È morta per un colpo di arma da fuoco nella sua casa a Nir Oz.  Molti familiari di Tamer Siman sono rimasti uccisi con lei il 7 ottobre: il marito Johnny e i tre figli Shahar, Arbel, Omer (4 anni). Tutta la famiglia si trovava nella stanza di sicurezza. Vi si erano chiusi dopo che era piovuta la raffica di razzi di Hamas, sotto consiglio delle autorità israeliane. Anche loro, avevano inviato un messaggio ai propri amici sostenendo di essere al sicuro.  Reuma e Gadi Kedem hanno così perso la loro figlia, il genero e i nipotini nel kibbutz di Nir Oz e ora, vogliono vedere Netanyahu estromesso dal potere.   

Ofir Libstein, politico israeliano, è stato vittima del 7 ottobre; anche lui capo del consiglio regionale nelle zone di confine a Gaza. La cosa principale non nota ai più, è che da lì a poco ci sarebbero state le elezioni – tutte rinviate da Netanyahu a seguito dell’attacco di Hamas. Il caso Libstein è altrettanto interessante: durante il suo precedente mandato a sindaco per 5 anni, i razzi di Hamas lanciati da Gaza sono stati regolarmente intercettati da Iron Dome durante le proteste del 2018-2019; 40 aziende si erano trasferite, sempre sotto sua indicazione, in una nuova zona imprenditoriale del consiglio regionale vicino al valico di Erez ad Arazim, che avrebbe consentito a 10.000 abitanti palestinesi di Gaza di recarsi a lavorare in Israele ogni giorno. Il motivo era che Libstein credeva fermamente che un rapporto pacifico con i palestinesi avrebbe ammortizzato le ostilità e messo fine ai bombardamenti. La zona industriale non sarebbe mai stata oggetto di rivendicazione da parte dei combattenti delle resistenze palestinesi.

Ayala di 73 anni, Liel e Yannai Hetzroni (due gemelli di 12 anni), così come il fratello di Ayala e il nonno Aviya Hezroni (direttore generale dell’MDA e autista di ambulanza presso la stazione a Netivot), l’intera famiglia è stata assassinata a Be’eri il 7 ottobre. Alcuni di loro erano stati rapiti da Hamas in casa propria e portati durante il tragitto nella casa di Pessy Cohen in cui erano altre persone in quel momento (sempre nel kibbutz Be’eri) infine data alle fiamme. Secondo testimonianze, Aviya Hetzroni sarebbe stato ucciso separatamente in casa propria all’interno del Maamad, con un colpo di arma da fuoco.

Della clinica MDA in cui lui prestava servizio, sono stati uccisi anche altri operatori mentre soccorrevano i feriti, sempre il 7 ottobre. MDA (Maged David Adom) è una missione umanitaria, servizio medico d’emergenza i cui mezzi sono operativi in Cisgiordania e ai confini della Striscia di Gaza per soccorrere i malati e portarli in cura negli ospedali israeliani. La famiglia Hetzroni era ben voluta e la settantatreenne Ayala, suo fratello e i due gemellini, furono portati da Hamas in quella seconda abitazione della famiglia Cohen in cui sono morti (oltre a circa 40 combattenti di Hamas che pure vi si erano asserragliati, secondo le cronache). In totale, sono rimasti uccisi nell’abitazione secondo il Jerusalem Post: Hana, Tal, e Yitzhak Sitton (ospiti in casa dei Cohen per vacanza), Pessy Cohen, esponenti della famiglia Hetzroni (di cui sopra), Zeev e Zehava Haker, Adi Dagan, Chava Ben Ami, Tal Katz e Suheib Abu Amr. Di questi, Adi Dagan e sua moglie insieme a Tal Kats, che aveva cercato rifugio presso di loro insieme al palestinese Suheib Abu (autista di 22 anni di un autobus ingaggiato per portare i ragazzi al rave party) dopo che erano sopravvissuti e fuggiti dal festival nel Negev, si erano chiusi tutti quanti nella stanza di sicurezza.

(In foto Suheib Abu, palestinese).

Ma Hamas li avrebbe costretti a uscire per prenderli come ostaggio fino a portarli in casa Cohen, poi presa d’assalto dai militari israeliani che l’hanno ridotta in cenere.

Yasmine Porat è stata l’unica sopravvissuta del gruppo, testimone da cui si è ricostruita più dettagliatamente la vicenda.  Anche Porat aveva partecipato al festival, ma era riuscita a rientrare a Be’eri dove Hamas la aveva presa prigioniera” …i combattenti di Hamas sono stati civili, mi dicevano che non mi avrebbero uccisa e che volevano solo portarmi a Gaza”. Lei ha raccontato ciò che è accaduto nel kibbutz:” Israele ha eliminato tutti, anche gli ostaggi”.   

Si sostiene, che “di fronte all’impossibilità di scegliere se continuare o meno a consentire alle forze di Hamas di rappresentare un pericolo e date poche opzioni chiare per salvare gli ostaggi, il generale di brigata e comandante della 99° divisione Barak Hiram abbia ordinato a un carro armato di aprire il fuoco sulla casa dei Cohen distruggendola, e uccidendo tutti coloro che vi si trovavano raggruppati all’interno” scrive sempre il Jerusalem Post. “Lo sparo è stato eseguito in modo professionale in seguito a decisione congiunta dei comandanti della polizia speciale, dell’ISA e unità IDF al fine di fare pressione su Hamas”. Un omicidio deliberato del governo israeliano.  Circa 23 carri armati erano di stanza quel giorno in tutta l’area al confine di Gaza.  

Kish Azoulay membro della sicurezza dei kibbutz israeliani, ha raccontato che durante l’attacco del 7 ottobre, l’ordine per le famiglie era chiudersi nel “maamad”; mentre gli addetti alla sicurezza avevano ricevuto disposizioni di dividersi simulando spari multipli anche a vuoto intorno alle abitazioni, per fare credere ad Hamas che ci fossero più gruppi armati contro di loro, in attesa che sopraggiungessero i rinforzi dell’esercito. Kish ha raccontato di come lui è riuscito infine a mettersi in contatto diretto con volontari dell’esercito e polizia. Una stranezza si legge sul giornale italiano “La Stampa”, ove un articolo cita da fonti che in alcuni kibbutz “hanno tolto l’elettricità e tutti si sono ritrovati al buio dentro le stanze di sicurezza”. Chi…ha fatto saltare la corrente? Quando l’esercito ha predisposto le evacuazioni, ed era già buio, i sopravvissuti sono stati portati in alberghi sicuri.                   

Quindi esiste anche un’altra Israele che non è solo una fazione politica opposta a Netanyahu, ma gruppi di persone moderati che vorrebbero vivere più pacificamente coi palestinesi, e che vivono lì, al confine della Striscia di Gaza. Non sapremo mai se è stato solo un caso che il gruppo Hamas si è addentrato proprio nei kibbutz più volti alla sinistra politica o semplicemente benevoli verso la Palestina, oppure se è stata una scelta di comodo nella convinzione che sarebbe stato più semplice spingere i civili rapiti a farsi trascinare a Gaza. Gli stessi palestinesi sono divisi in due: molti di loro vedono Hamas come una creatura di Israele e una maledizione, altri come il proprio simbolo di resistenza ai bombardamenti israeliani. Ma, molti dei civili uccisi nei kibbutz che si sono riparati nelle maamad, erano sfavorevoli alle politiche di Netanyahu (benché non esistano affiliazioni dirette tra loro e i segugi di Hamas, da cui si stavano effettivamente nascondendo in quelle ore di strazio). È molto più chiaro, il motivo per cui Benjamin Netanyahu non si è mai neanche preoccupato degli ostaggi o di fare luce sugli eccidi in quei kibbutz che accoglievano fasce di popolazione israeliana ostili al suo partito della guerra! In un primo momento, il fatto che i morti del 7 ottobre fossero stati a favore della coesistenza pacifica con i gazawi e con gli arabi quando erano ancora in vita, e la terribile realtà di Hamas che li ha trucidati nonostante questo, doveva servire a Netanyahu come pretesto per cancellare le idee delle opposizioni politiche, trasformare Israele in una sola voce che gridasse “morte alla Palestina.” Invece Netanyahu ha fallito, e chi chiamava la pace ha continuato a invocarla nelle proteste a Tel Aviv. Ora, dopo la fine della prima fase di accordi che stabilivano la tregua, e con la ripresa dei bombardamenti da parte di Israele, nella Striscia di Gaza accade qualcosa di ancora diverso. Alcuni gruppi, e questo è propizio a Netanyahu, hanno cominciato a protestare non solo contro la ripresa delle incursioni dell’IDF ma anche contro il gruppo Hamas, chiamandoli “traditori”. Manifestanti della città di Beit Lahia, a nord di Jabalia vicino al confine settentrionale di Gaza, hanno chiesto al gruppo di guerriglieri di abbandonare la Striscia dopo aver ricevuto l’ennesimo ordine di evacuazione dal governo israeliano. Alcuni palestinesi erano tornati lì dopo l’inizio del cessate il fuoco ma, il fatto di doversene andare di nuovo, ha aperto la strada alle proteste generali, di rifiuto verso i bombardamenti israeliani ma anche della presenza di Hamas. Su alcuni giornali italiani appare una strana intervista a un certo palestinese di nome Karim (un nome di fantasia), il quale dice che ha partecipato alle proteste ed accusa Hamas di avergli “venduto gli aiuti umanitari” nonostante fossero gratuiti per la gente bisognosa del luogo. L’uomo intervistato, che lamenta come Hamas si sarebbe impossessato degli aiuti umanitari per rivenderli e guadagnarci del denaro, fa parte di una minoranza palestinese laddove la maggioranza sembra favorevole ad Hamas, fiduciosi nelle buone intenzioni dei miliziani. Poi, Karim fa una strana affermazione sul 7 ottobre sostenendo come, i cittadini palestinesi che hanno appoggiato Hamas il giorno dell’incursione Al Aqsa, anche senza indossare una divisa militare sono, secondo lui, colpevoli quanto Hamas. “Non tieni in casa un ostaggio se non sei uno di loro”, ha detto Karim riferendosi al fatto che i civili israeliani rapiti, molto spesso, sono custoditi e accuditi nelle case delle famiglie palestinesi nella Striscia di Gaza. Queste “proteste al contrario” a sfavore del movimento politico Hamas, esistevano a Gaza anche prima del 7 ottobre ma si è sempre trattato di minoranze che, paradossalmente, sono descritte con molto riguardo e ammirazione da alcuni canali di comunicazione vicini al governo di Netanyahu, ovvero che appoggiano lo sterminio di tutto il Popolo di Palestina. La creazione di fratture interne alla Striscia, non può che favorire la conquista di Gaza e le mire espansionistiche della destra sionista israeliana. A ogni modo, è strano che Netanyahu voglia evitare inchieste indipendenti nei kibbutz presi d’assalto il 7 ottobre, se è vero che Hamas ha sicuramente commesso massacri di massa nelle case. In parte, è noto che un certo numero di morti sono stati provocati da attacchi con carri armati o aerei militari dell’IDF, giustificati grossolanamente da comandanti e ufficiali che non sono stati puniti per questo. Tuttavia, il fatto che è vietato indagare oltre, fa nascere molti dubbi sulle dinamiche occorse in quelle terribili ore in cui hanno perso la vita gli stessi combattenti di Hamas che procedevano a rapire i civili israeliani. Ciò dovrebbe apparentemente scongiurare un’ipotetica intesa tra le due fazioni, Hamas e Israele, salvo tradimenti e operazioni di spionaggio interno che possono aver fatto la differenza. Quel che però più lascia perplessi è l’esistenza di un’altra Israele, che aiutava e si batteva per i palestinesi dall’altra parte della barricata. È notevole che, le vittime assassinate nei kibbutz il 7 ottobre, chissà per mano di chi, fossero così sentimentalmente vicine a Gaza, e così lontane dal governo di Netanyahu. “Le anziane, che ancora ricordano un tempo senza barriera e reticolati, la sera chiamavano altre donne dall’altra parte, palestinesi che avevano conosciuto”.                    

 29 marzo 2025 – PAOLA MORA – Qui Radio Londra Tv

 

PAUSA CAFFE’

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