INTERVISTA A MAYA ISSA, PALESTINESE. L’ATTIVISMO COME CONTROINFORMAZIONE.
di Paola Mora
Maya Issa è una donna fieramente palestinese di 25 anni, Presidente del movimento Studenti Palestinesi in Italia, fa parte di quella schiera di nomi giovani, dell’alba del XXI secolo che, nel propagare le voci dei loro paesi d’origine si sono distinti per l’abnegazione, la dialettica, la cultura acquisita dalla loro curiosità, il forte senso di patria e radice da cui sanno di provenire. La intervisto di sabato 5 aprile 2025, mentre a Roma e in tutta la penisola italiana si scende a protestare contro il riarmo più per senso della Costituzione che per inseguire le chimere politiche, quelle fallite che, pur prendendosi i meriti cominciano a comprendere come la gente, spesso muove i piedi e marcia per i propri diritti e non per affinità elettive. La timbrica della voce di Maya Issa è squillante, trasparente, alta e assertiva, documentale come quella delle donne che svolgono giornalismo o che militano nei congressi politici e sociali di una certa tiratura. Le chiedo di raccontarmi la storia della sua famiglia, cosa della sua Terra d’origine sotto i bombardamenti i genitori le hanno tramandato, poiché è nata in Italia ma, il suo braccio destro sembra il prolungamento costante di quella bandiera nazionale che ella sventola in giro, lungo le strade, dove si manifesta per chiedere la fine dell’occupazione israeliana.
“Ho 25 anni, studio scienze politiche e relazioni internazionali presso l’Università di Roma 3, sono nata a Roma, ed entrambi i miei genitori sono palestinesi. Noi siamo i palestinesi del ‘48, i figli della Nakba che in lingua araba significa “catastrofe del Popolo palestinese”, quando da una parte è nato lo Stato di Israele, ma per noi coincide con l’inizio dell’esilio che ci ha resi rifugiati in tutto il mondo.
Mio nonno paterno viene da una città palestinese che si chiama Akka, i miei nonni materni da Safad. Quando sono stati cacciati dalla loro terra nel ‘48 chiesero rifugio in Libano dove mio padre è nato, a Beirut, nel campo profughi di Burj al-Barajneh. All’età di 17 anni mio padre è venuto qui. Mia madre è stata più fortunata poiché dal Libano mio nonno materno si è spostato a Dubai dove lei è nata. Ho un fratello e una sorella.
Quello che mi hanno tramandato i miei genitori, non è tanto il “tramandare” perché credo che chiunque nasca palestinese, nasce con l’amore verso questa Terra e non è una semplice frase ideologica la mia, ma è ciò che io ho personalmente percepito e sento. I miei genitori parlavano pochissimo di Palestina quando io e i miei fratelli eravamo ancora troppo piccoli per comprendere, ma in casa notavo ugualmente che i telegiornali erano spesso sulla situazione palestinese e mia madre e mio padre ascoltavano sempre le notizie sulla Palestina. Comunque, sono cresciuta vedendo la mia terra martoriata, sotto le bombe e con immagini di bambini decapitati. Una di quelle che più ricordo nella mia infanzia risale al 2008, sotto Natale, periodo in cui Gaza era sempre sotto bombardamenti [operazione militare israeliana “piombo fuso”]. I miei genitori mi hanno cresciuta sul principio del rispetto e dell’amare tutte le religioni. Noi siamo sì musulmani, ma non effettivamente una famiglia praticante. A esempio, sono cresciuta anche festeggiando il Natale, in cui credo, lo abbiamo sempre celebrato. Ero solita scrivere la lettera a Babbo Natale, e nel 2008 scrissi chiedendogli che scoppiasse la pace a Gaza e che ci fosse un aereo che calasse i colori della pace a Gaza. Mi chiedevo e ancora oggi me lo domando, perché io qui in Italia posso studiare, quando invece ai bambini a Gaza questo non gli è concesso. Domanda, cui non riesco veramente a dare una risposta. Queste domande, da banali sono diventate gradualmente più importanti e hanno preso forma dentro di me per il fatto che sentivo il desiderio di voler fare sempre di più, sapere di più, conoscere meglio la mia terra. Ho incominciato a leggere libri, la mia tesina di terza media riguardava la Palestina, portai come argomento uno studio su Vittorio Arrigoni [giornalista e attivista italiano che si era trasferito nella Striscia di Gaza nel 2008 dove fu ucciso il 14 aprile 2011 dopo più controversie e provocazioni, disavventure legate al fatto che i report sul campo di Arrigoni contro l’occupazione israeliana potessero smascherare crimini di guerra], e da lì il mio attivismo è cresciuto al liceo fino all’Università. L’obiettivo del mio attivismo, che condivido con la mia generazione nata in diaspora, è che il mondo sappia cosa è la Palestina, che ci si informi; sui libri di scuola alle elementari e medie mi facevano studiare cosa è Israele, ma non si nominava mai e non c’era nulla sulla Terra palestinese. Alle medie, una volta che studiavamo geografia, l’insegnante ci chiese di disegnare la bandiera di Israele. Io ricordo che mi rifiutai. Per me quella è la Palestina, così ho disegnato la bandiera palestinese indicando i suoi confini.
Oggi, alcuni dicono addirittura che la Palestina non esiste affatto. I giornalisti accusano gli attivisti come me che si neghi l’esistenza di Israele da parte nostra, ma, Israele è stato riconosciuto dalla comunità internazionale, mentre la frase andrebbe volta al contrario dal momento che, quel che si nega davvero oggi è l’esistenza della Palestina. Il mio sogno più grande è un giorno di poterci andare in Palestina, visitare la mia Terra, le strade, ma purtroppo, e qui entriamo un po’ nel merito del Diritto, il governo d’Israele non riconosce il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi perché non rispetta la risoluzione dell’ONU. Neanche i miei genitori, che hanno passaporto da rifugiati, possono entrare in Palestina, e paradossalmente non l’hanno mai vista o visitata. Per quanto riguarda me, fino ai 18 anni ho posseduto un passaporto come “profuga palestinese del Libano”. Ora che sono anche cittadina italiana potrei tentare, ma sono quasi certa che Israele non mi farebbe mai entrare lì, anche forse per via del mio attivismo”.
Maya Issa risponde alle mie domande quasi senza prendere respiro, in cui le ho chiesto se sente mai il desiderio di andare nella terra d’origine della sua famiglia, dei nonni sfuggiti alla devastazione della Nakba, facendole notare come la tendenza politica globale odierna è la cancellazione della storia che questo territorio esiste. Tra l’altro, quelle città una volta considerate palestinesi sono oggi occupate. Safad è una delle città più antiche, attraversata da fiumi che sfociano nel Giordano, villaggio strategico militarmente poiché da lì è possibile a controllare una strada principale per Damasco. Mentre Akka è stata il punto d’accesso alla Palestina, con le sue abitazioni in pietra. “Sai, quando tu dici ‘Palestina’ all’estero ti rispondono che tecnicamente essa non esiste. Nel senso che si complicano tutte le procedure burocratiche” prosegue Maya.
“Banalmente, una volta che ero ancora minorenne rubarono il mio cellulare e mi recai a fare denuncia in caserma. Ma, quando i carabinieri hanno chiesto la mia identità e gli ho detto che ero palestinese, sui loro database questa dicitura non gli risultava. Mi dicevano, ‘non esiste, non c’è, mettiamo israeliana?’, ma io non sono israeliana. ‘Allora di Gaza?’, ed io spiegavo che Gaza è una città, non è una nazionalità o uno Stato. Alla fine, hanno scritto ‘Libano’. Insomma, ti negano la tua stessa identità. È vero che da un lato, mi ritengo fortunata perché sono nata in Italia dove ho visto riconoscermi, ai 18 anni compiuti, tutti i miei diritti e anche nel mondo del lavoro spero un domani di non riscontrare dei problemi, ma, la stessa cosa non è accaduta a esempio ai miei cugini, nati in Libano. I palestinesi fuggiti nel ’48 hanno ricevuto trattamenti differenti a seconda dei paesi in cui sono stati accolti come rifugiati. A esempio, in Giordania gli sono stati dati tutti i diritti ed anche la cittadinanza, per cui sono stati integrati pienamente nella società; ai palestinesi fuggiti in Siria non è stata data invece la cittadinanza, ma sono comunque stati integrati nel settore socioeconomico. I più sfortunati sono stati quelli fuggiti in Libano, dove non gli è stato riconosciuto nulla, nessun documento di supporto. Così, gli è vietato comprare case, acquistare automobili o intestarsele e, non potendo sistemarsi, essi vivono in questi campi profughi che sono in condizioni inumane. Io li ho visitati. I cavi intrecciati dell’elettricità sono ad altezza uomo in vicoli strettissimi ove quasi neanche le automobili possono accedere. A contatto con la pioggia, con l’acqua, può capitare che vanno in corto circuito provocando danni e, molte persone anche giovani sono morte in questo modo.
Nel Libano è vietato al palestinese esercitare fino a 73 professioni quindi, se un ragazzo sogna che vuol fare l’avvocato o il medico, a esempio, questo non gli è possibile. Eppure, il popolo palestinese è uno dei più acculturati del mondo. La maggior parte dei palestinesi che conosco in Italia, della generazione dei miei genitori, hanno studiato medicina, farmacia, o architettura, ricordo anche che un noto medico palestinese è morto durante il Covid [Nabeel Khair, medico, aveva portato all’attenzione la questione palestinese in Sardegna, a Cagliari, dove è spirato per un’infezione con Covid mentre si occupava dei pazienti dell’ospedale in cui era distaccato]. La mia generazione invece, quella successiva, è più concentrata sulle scienze politiche e la giurisprudenza, forse perché i nuovi giovani di origine palestinese hanno capito che in questo modo e attraverso questa tipologia di studi si può seguire la nostra causa dall’interno, si può accedere all’interno delle istituzioni, dei parlamenti, dell’ONU. Ci deve essere un cambiamento…”.
[È il tuo sogno questo? Cosa vuoi fare da grande?], le chiedo.
“Sì, vorrei entrare a far parte delle istituzioni per poter difendere la causa della mia Terra, poter fare qualcosa. La Palestina non ha bisogno solo di parole astratte ma di fatti concreti, di politica. Si tenta di far credere che essa è depoliticizzata, e noi vogliamo dire che no, la questione palestinese non è solo una causa umana o umanitaria ma politica, quindi serve, per risolverla, applicare soluzioni politiche e diplomatiche”.
Maya Issa è già rappresentante del movimento studentesco per la Palestina, si occupa delle mobilitazioni soprattutto nel Lazio, organizzate per chiedere la liberazione dall’occupazione israeliana. Manifestazioni che sono molto numerose, colme soprattutto di giovani, che è forse l’aspetto che più spaventa chi deve coprire e giustificare le azioni militari del governo d’Israele contro la popolazione palestinese. Azioni militari che tuttavia non si fermano ed è difficile fermarle. Ci sono dei risultati che questi movimenti d’attivismo si può sostenere abbiano raggiunto? Apparentemente no, come già sottolineato dalla Issa serve una soluzione politica ma, tuttavia, le folle in strada hanno un ruolo di divulgazione oltre che il potere di convergere il focus su una popolazione che rischia di scomparire o di venire ancora più isolata.
Manifestazione Roma Montecitorio 12 -4- 2025
“Le mobilitazioni di piazza, siamo ben coscienti che effettivamente non abbiano portato a delle soluzioni politiche che le sono necessarie ma, allo stesso tempo, esistono delle ragioni per cui vale la pena continuare. In primo luogo, quando manifestiamo acquisiamo video e immagini che conseguentemente arrivano o inviamo a Gaza e in Cisgiordania. Ci ringraziano per il fatto che ovunque, e non solo in Italia, continuiamo a scendere nelle piazze regalando forza e sostegno a chi è lì, che non si sente abbandonato. Anche se le manifestazioni non portano soluzioni pratiche noi siamo con loro, diventiamo la loro voce. Lo facciamo ogni sabato, un sabato sì ed uno no alternando; ed anche al contrario, qualunque fatto accade in Palestina noi lo riportiamo qui: attraverso le manifestazioni cerchiamo anche di svolgere un lavoro di controinformazione riportando notizie, lettere di giornalisti, aggiornamenti sui numeri delle vittime, ricordando che non solo è in atto un genocidio a Gaza ma anche una pulizia etnica in Cisgiordania e che Israele ha obiettivi espansionistici. I media del main-stream portano avanti una narrazione unilaterale propagandistica e spesso distorta di ciò che accade in Palestina. La terza ragione per cui manifestiamo è che siamo consapevoli che chi ci osserva dall’altra parte, ovvero la comunità sionista e i politici, sono infastiditi quando organizziamo le piazze di protesta. Spesso i cortei vengono bloccati o assaliti da giornalisti che cercano di strumentalizzarli, o comunque, è per esempio accaduto il 25 aprile del 2024 che la comunità sionista è intervenuta aggredendoci fisicamente, lanciando oggetti, petardi, barattoli di legumi. Questa forma di attivismo è fastidiosa poiché riversa in piazza i giovani e folle numerose. Per noi è un grande risultato perché dimostra come è vero che, anche se la politica e i governi non parlano di Palestina, nonostante questo, i popoli del mondo sanno che esiste la Palestina e da che parte stare e si uniscono al popolo palestinese e alla sua resistenza.”
Per chi vuole cancellare la Palestina, quando gli studenti non obbediscono alla visione unilaterale politica dove al governo di Israele viene dato il potere di cancellare la storia di un altro popolo, il problema è forse che non muore mai il seme, e quindi si procrastina la resistenza secondo cui la Palestina esiste,
“Ho lasciato il liceo pochissimi anni fa, e già noto la differenza nel passaggio all’Università. Quando ero al liceo mi dicevano che la Palestina non esiste. All’Università, un cambiamento radicale di visione generale sull’argomento lo ho avvertito in particolar modo nel 2021 quando c’è stato l’assalto e aggressione israeliani alla Moschea di Al Aqsa durante il mese di Ramadan. I coloni facevano delle marce nella moschea dicendo ‘a morte i palestinesi’, o si chiedeva di dare ai coloni le case palestinesi dei quartieri a Gerusalemme est. In quel periodo, notavo che gli studenti universitari e anche liceali cercavano di invitarci nelle scuole per parlare di Palestina, e per me che ero uscita dal liceo da poco è stato strano, in quanto, tra i banchi di scuola in passato venivo presa in giro sul fatto che la Palestina geograficamente non esistesse, mi si negava la mia identità, e improvvisamente, quegli stessi studenti mi richiamavano per andare a parlargli di Palestina. Per me era quasi un sogno che si realizzava. Poi, il 7 ottobre 2023, questa data ha fatto sì che laddove si parlava poco o nulla della questione palestinese, tutti dai più piccoli ai più grandi ora ne parlano nuovamente ed è ritornata sulla scena internazionale”.
Manifestazione 12 – 04 – 2025 Montecitorio, Roma
E arriviamo al “chiodo dolente” su cui si dannano gli opinionisti. La maggior parte del giornalismo commerciale spinge chi manifesta per la Palestina a doversi giustificare sulla propria posizione riguardo al gruppo politico armato di Hamas, come se esso fosse uno scudo che si vuole tenere alzato, mentre si bombarda la Striscia di Gaza impunemente dicendo di essere solo a caccia di terroristi. In generale, non è assai interessante se Hamas è o meno terrorista. Nel senso che, il trattamento che viene riservato al Popolo palestinese dal governo israeliano appoggiato dai suoi alleati non è giustificabile. Ci sono palestinesi che vedono in Hamas dei partigiani, ed altri che non si fidano di questi combattenti e li chiamano traditori, ma, ambedue le categorie ed anche coloro della diaspora palestinese e non, che nel mondo manifestano, vogliono solo la fine del genocidio e dell’occupazione. Lo chiedono a prescindere da Hamas. Inoltre, il governo di Israele non tiene conto di chi muore, se Hamas o un bambino, bombarda per interessi economici stranieri, per spianare Gaza, espandersi, creare un business personale. Il giornalismo quando non ha come ribattere a un attivista, tira fuori la domanda su Hamas, creando una difficoltà e una distanza dal centro del problema. Leggendo interviste fatte alla Issa dei principali quotidiani, per quanto abbiano provato a trattenersi per la giovane età di questa studentessa palestinese, si percepisce sempre la verve velenosa di “impantanarsi su Hamas” quasi come a voler identificare l’attivista con il presunto terrorista, per demolire la contro-informazione o la testimonianza sulla tragedia del popolo palestinese sfollato e colpito. Maya Issa sul giornalismo odierno ha le idee chiare:
“Il 29 marzo 2025 abbiamo realizzato una manifestazione con degli interventi, leggendo sul giornalista Hossam Shabat ucciso recentemente a Gaza. Nei media non ne abbiamo sentito parlare e abbiamo visto come, sia nel corso di quest’anno sia in precedenza – nel 2021 abbiamo fatto anche un sit-in per questo motivo davanti alla sede RAI – non riportano effettivamente delle notizie corrette, per cui, quando si parla di media mainstream faccio fatica a ritenerli dei ‘giornalisti’, mi sembrano dei ‘giornalai’. Giornalismo significa diffondere pensiero critico, scrivere articoli. Difficilmente oggi si trovano giornalisti del mainstream, quindi non indipendenti o freelance, che scrivono personalmente degli articoli, ma essi si limitano al copia-incolla. Non c’è più il giornalista capace di scrivere, criticare, esprimere un proprio commento. Si riduce a una gara di chi pubblica per primo una notizia “copia e incollata”. A esempio dopo il 7 ottobre, una giornalista ha affermato in diretta che c’erano stati 40 neonati israeliani decapitati da Hamas. La notizia è stata presa così com’era senza consultare se le fonti fossero o meno attendibili ed è stata pubblicata per certa qui in Italia. Qualche ora dopo, la stessa giornalista ha smentito, ma era ormai troppo tardi poiché tutti avevano già interiorizzato ciò che inizialmente veniva diffuso dalle testate giornalistiche che hanno ricalcato la notizia. Allo stesso modo, era inesatta la notizia sullo stupro delle donne israeliane, e gli stessi israeliani hanno successivamente negato il fatto che ci fossero stati degli stupri. Per cui si è trattato di una propaganda in cui i giornalisti si sono limitati a tradurre veline militari israeliane diffuse appositamente. E vede, anche qui in Italia si tende a umanizzare solo la famiglia israeliana o il prigioniero e ostaggio israeliano, ma viene disumanizzato il palestinese in quanto prigioniero. Per cui, tornando al giornalismo e per spiegare come ci sia anche un gioco di parole con due pesi e due misure, alle volte sentiamo notizie in cui il giornalista fa riferimento a ‘israeliani uccisi’, mentre se si tratta di civili palestinesi si scrive che sono ‘morti’, come si trattasse di una morte naturale e non consequenziale a un attacco armato. ‘Israeliano ucciso’ e ‘palestinese morto’, e invece no, no, il palestinese non è ‘morto’ ma è stato ‘ucciso’ dalle forze di occupazione israeliane o dai bombardamenti israeliani, manca sempre il soggetto dell’azione nella narrazione che riguarda il palestinese. Mentre se il cosiddetto ‘terrorista palestinese’ ha bombardato o ucciso, questo viene sempre messo in evidenza.
Manifestazione 12 – 04 – 2025 Roma, Montecitorio
Nelle televisioni invitano gli esperti israeliani, ma non invitano gli intellettuali o accademici palestinesi. In Italia vivono molti cittadini di origine palestinese delle scorse e attuali generazioni, che sono in grado di partecipare ai programmi televisivi per esporre un proprio punto di vista, ma, non ci chiamano. Perché sanno benissimo che siamo in grado di smascherare il governo di Israele. Ci è capitato di sentirci dire che lasciarci parlare di alcuni argomenti corrispondeva ad un problema. Ecco perché il giornalismo non è assolutamente libero né democratico. Ce lo hanno fatto vedere benissimo con un’inchiesta della trasmissione “Report” quanto le lobbies israeliane sono infiltrate all’interno delle nostre istituzioni, società, università, scuole.”
[“Non neghiamo la catastrofe degli ebrei, ma è Israele che nega la nostra storia”, è una frase che Maya Issa ha pronunciato durante una manifestazione. Tutti gli israeliani vogliono la fine della Palestina, oppure no, è una questione governativa? Le chiedo.]
“È una frase che ho pronunciato il 27 gennaio 2025 come anche la avevo ricordata l’anno precedente alla stessa data. Il motivo è che sembrano esistere genocidi di serie A e di serie B. Noi palestinesi riconosciamo il genocidio degli ebrei come anche dei rom dei sinti, ma dalla parte opposta vediamo come molti ebrei che hanno subito queste violenze storiche, stanno portando avanti il genocidio del popolo palestinese. Tra l’altro, noi palestinesi non siamo coinvolti nel genocidio ebreo, se ci deve essere una responsabilità quella è europea. Inoltre, cerchiamo sempre di fare una distinzione dal momento che è in voga confondere la questione politica con quella religiosa. Ci teniamo a dire che la questione palestinese non c’entra nulla e non è legata a un fattore religioso. Il contrario di ciò che fa “Israele” il cui governo cerca di far credere che questo in corso è un conflitto religioso. Ma noi palestinesi, per quanto ci riguarda, non abbiamo nessun problema con gli ebrei. L’ebraismo è una religione, la prima religione monoteista che viene prima dei precetti dell’Islam e del cristianesimo. È importante capire che i palestinesi non hanno alcun problema con l’ebraismo, ma lo hanno con un’ideologia che è quella sionista nata alla fine dell’Ottocento in Europa, e riguarda le leggi razziali che subivano gli ebrei qui in Europa e non in Palestina. Ci sono gruppi di ebrei che prima della Seconda guerra mondiale vivevano pacificamente nei paesi arabi. Non erano perseguitati né subivano razzismo. Esistono ebrei siriani, esistono ebrei marocchini, libici, egiziani, perché appunto si tratta di una religione. Ma noi confondiamo la religione con il popolo. Israele è nata su una menzogna costruita dal suo governo dove lo stesso Ilan Pappè, storico e accademico israeliano, ne parla in un suo libro titolato” I dieci miti di Israele”, e uno dei miti è quello di un “popolo senza terra per una terra senza popolo”. Si sostiene che il ‘popolo ebraico’ non ha una terra, ma ripeto, l’ebraismo non indica un popolo ma è una religione. Affinché ci sia un popolo devono sussistere delle caratteristiche simili tra soggetto e soggetto, semantiche, di lingua, cultura, fisiche, e questo l’ebreo non lo ha. Appunto, esistono ebrei italiani, russi, polacchi, rumeni, libanesi, palestinesi – a esempio sono ebrei quelli che abitano in Cisgiordania nella città di Nablus – i quali però non si riconoscono nel sionismo né si riconoscono come israeliani. Il noto Moni Ovadia è ebreo, ma ce ne sono tanti che si vedono protestare negli Stati Uniti d’America o in Inghilterra, ovunque, contro l’occupazione israeliana con noi, fianco a fianco, che non confondono le due cose e non si sentono appartenenti a Israele. Gli ebrei che si identificano con lo Stato di Israele sono i primi che dovrebbero prendere le distanze da quello che il governo di quel paese sta commettendo, poiché essere ebrei equivale allo stare dal lato degli oppressi e non dell’oppressore. Ritengo sia vero che anche in Israele ci sono molti ebrei che sono contro le politiche di occupazione di Benjamin Netanyahu, Ben Gvir, Bezalel Yoel Smotrich, nei kibbutz come in Cisgiordania, o nel villaggio che qui in Italia conoscete come Hebron dove si protesta contro l’esproprio di questo villaggio. Sicuramente ci sono anche tanti ebrei israeliani e questo ci fa capire come anche all’interno c’è una crisi. Quello che speriamo è proprio in una spaccatura interna. Recentemente si è assistito a delle manifestazioni in Israele contro il governo di Netanyahu. Tuttavia, ci sono due analisi che dobbiamo distinguere una dall’altra. La prima cosa è che sono sì proteste in cui si richiede il rilascio degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas e si accusa il governo di non fare abbastanza ma, non si chiede qui la fine dell’occupazione. È solo una minoranza, quella che dentro Israele crede nel fatto che l’occupazione deve terminare. Anche questo non deve essere strumentalizzato per poi fare credere che c’è un sionista buono ed uno cattivo. Il sionista è sionista. La seconda cosa, è che ci sono degli ebrei i quali non si definiscono nel sionismo e effettivamente manifestano coi palestinesi. Principalmente, in Israele si assiste a ciò che ho descritto in prima analisi, ovvero si protesta per il rilascio degli ostaggi e si attribuisce a Netanyahu una serie di aggettivi quali ‘pazzo’ o ‘folle’, quasi giustificando le sue azioni. Ma egli non è un pazzo e nemmeno un folle, tantomeno un incidente di percorso nella storia di Israele, fa semplicemente parte del progetto sionista che mira ad espandere i confini per creare la “grande Israele”, una colonizzazione dal Nilo all’Eufrate. Prendendo in esame la bandiera israeliana essa vede una stella di David a sei punte con due linee blu che la delimitano e rappresentano il Nilo e l’Eufrate. Per cui, l’obiettivo è spianare la Palestina ed anche espandere i confini. Il problema non è quindi Netanyahu, ma non è neanche Hamas. Per esempio, Yitzhak Rabin che vinse il premio Nobel per la pace e firmò gli accordi di Oslo in mano ad Arafat nel 1993, parlò dell’intenzione nel 1976 di espandere i confini della Galilea di oltre 21000 dunum (5.500 acri per creare otto centri industriali ebraici) e lì i palestinesi si ribellarono organizzando una manifestazione pacifica; vennero uccisi sei palestinesi. Per cui, il programma di colonizzazione ed espansione non è che ce lo ha solo Netanyahu, ma tutti i governi israeliani che si sono succeduti hanno questo obiettivo, indistintamente. C’è chi lo fa in maniera più violenta, e chi in un modo se vogliamo più moderato in modo che passi più inosservato all’opinione pubblica “.
[In questi giorni in Europa c’è stata un’importante apertura a Netanyahu su cui pendeva un mandato d’arresto. Il primo paese ad accoglierlo è stato l’Ungheria e in futuro, potrebbero essere altri i paesi europei che gli apriranno le porte, come l’Italia o la Germania. La presidenza di Trump sta migliorando o peggiorando la situazione in Palestina? E l’Ungheria si è avvicinata a Netanyahu per cercare di risolvere attraverso la diplomazia anche la questione medio orientale, o per sostenere il governo israeliano nella sua espansione?]. Le chiedo, ma la risposta di Maya Issa è aspra, critica, dura.
“Tra fascisti ci si intende, potrei riassumere tutto in una frase”, esordisce, poi si ricompone e riprende a parlare meno d’impeto e più distaccata “… ma diciamo, l’Ungheria si è avvicinata secondo me, sfidando il diritto internazionale. È stato lanciato un chiaro messaggio da parte di Viktor Orban che il diritto internazionale è morto, l’Ungheria ha deciso di ritirarsi dallo Statuto di Roma. Per quanto riguarda il presidente americano Trump vale lo stesso discorso fatto da me in precedenza. E cioè, chi in maniera più elegante e chi meno, porta avanti quello stesso progetto. Donald Trump lo esegue senza nascondersi dietro a un dito. Ed è questa la differenza, secondo me, tra i democratici e i repubblicani americani, poiché se vogliamo, anche la stessa vicepresidente Kamala Harris, [della precedente amministrazione Biden], è moglie di un israeliano membro della lobby AIPAC che porta avanti gli interessi dei sionisti e sostiene tutte le campagne politiche dei presidenti americani. Che si tratti di Trump, Harris, Obama, cambia il colore politico ma la sostanza è sempre la medesima.”
La discussione con l’attivista Maya Issa si sposta infine in Egitto, poiché durante le celebrazioni dell’Eid al fitr e fine del Ramadan ci sono state manifestazioni al Cairo contro Israele, che vuole imporre il dislocamento forzato ai palestinesi, e, di fatto è coinciso con una svalutazione monetaria interna e aumento dei prezzi secondo una mia fonte giornalistica di fiducia. L’Egitto è un territorio ricattabile dal punto di vista economico in cui è debole, avendo chiesto anche un prestito al Fondo Monetario Internazionale. – “Sul piano di deportazione, posso dire che è dal 7 ottobre 2023 che si parla di pulizia etnica ed era evidente già allora, prima che Trump [assumendo la presidenza ndr] lo rendesse più chiaro a tutti. Vogliono spostare i palestinesi di Gaza in Egitto, e quelli della Cisgiordania in Giordania. Jenin e Tulkarem sono state quasi completamente rase al suolo con la conseguenza di circa 50.000 sfollati, in Cisgiordania. E in Cisgiordania Hamas non c’è. Ecco perché è evidente come il governo di Israele non mira all’eliminazione del gruppo militare Hamas, ma a quella del popolo palestinese per occupare la loro terra. Inoltre, la pulizia etnica non è neanche cominciata il 7 ottobre, ma a partire dalla nascita dello Stato di Israele, dal 15 maggio 1948 se vogliamo essere generosi, ma anche prima della Nakba, e cito gli accordi di Balfour (1917). Non possiamo sapere se l’Egitto alla fine accetterà e cederà alle pressioni, ci auspichiamo che regga o che almeno non si renda complice di questo ulteriore crimine dopo che già in parte ha partecipato ad esso non aprendo il valico di Rafah, territorio egiziano su cui alla fine comanda Israele.
Roma- 12 aprile 2025 – Montecitorio
Quando chiedo a Maya Issa quale potrebbe essere, secondo lei, una soluzione per la Palestina o, meglio, quali sono gli errori commessi internamente alla Palestina per cui non si riesce a uscire dalla sopraffazione, rimango meravigliata poiché ci tiene a scindere se stessa e la sua vita in Italia, dal resto dei palestinesi che abita in Medio Oriente. Un atto di consapevolezza del fatto che non ha mai vissuto fisicamente in terra palestinese e da fuori, si accorge che non può prendere decisioni come se le spettasse di diritto, anche solo per via del sangue che le scorre nelle vene.
“Generalmente questa è una domanda cui preferisco non rispondere. Noi palestinesi in diaspora, non possiamo stabilire, qui da dove ci troviamo, o consigliare una soluzione. Noi viviamo in una condizione diversa, di benessere, comodi nelle nostre case, e non è corretto che siamo noi a decidere o a stabilire le soluzioni per il Popolo di Palestina. Possiamo limitarci solo a riportare la loro voce, essere il loro megafono di ciò che accade a Gaza o Cisgiordania. Ritengo che le soluzioni spettino a chi vive lì. Noi della diaspora non abbiamo la verità al cento per cento di tutto quello che accade, molte notizie che riceviamo dalla Striscia di Gaza potrebbero essere vere o non esatte nella totalità. Ci comportiamo semplicemente da ‘solidali’, attraverso le mobilitazioni, senza voler suggerire nulla al posto del Popolo palestinese e togliendo però le lenti degli occhiali da coloniali. Il Popolo palestinese è capace di liberarsi da solo, di autodeterminarsi. Il nostro compito è solo quello di riportare la loro voce e creare delle condizioni, a esempio: fare pressione sui nostri governi e sulla comunità internazionale affinché realizzino le richieste dei palestinesi, attraverso la domanda di embargo sulle armi israeliane, chiedendo sanzioni, boicottando i prodotti commerciali israeliani, chiedendo la fine dell’occupazione israeliana e smantellamento degli insediamenti illegali. Possiamo al limite permetterci di dire, che ci sono degli errori da parte palestinese e, questi errori noi li vediamo, o possiamo sottolineare come alla luce dei massacri che stanno avvenendo, l’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe, secondo me, “sospendere” l’accordo che ha con il governo di Israele di collaborazione. È necessario dare un segnale, perché non si può proseguire una collaborazione quando il numero di vittime è così elevato ed è in atto un vero e proprio genocidio. L’Autorità Palestinese non può comportarsi come se la Palestina fosse uno Stato riconosciuto, non è opportuno venire incontro a Israele. La vecchia generazione è convinta ancora che è possibile sedersi a un tavolo con Israele, parlare di pace. Lo abbiamo fatto attraverso diversi accordi in passato, tra cui quello di Oslo e ne paghiamo ancora pesantemente le conseguenze, siglato nel 1993. Non è possibile sedersi a un tavolo se sono così ostili le condizioni, e quindi, l’Autorità Palestinese dovrebbe rispondere ritirandosi dagli accordi.”
L’intervista volge al termine mentre a Roma comincia la marcia popolare contro il riarmo. In piazza, vicino al tricolore italiano e bandiere della pace appaiono delle bandiere palestinesi.
“Sì, abbiamo ricevuto immagini della manifestazione a Roma e abbiamo notato che ci sono anche bandiere della Palestina, striscioni contro le politiche di Netanyahu. Lo guardiamo con molta attenzione, ed anche felicissimi, perché vuol dire che l’opinione pubblica è dalla parte del Popolo palestinese, ma, per quanto riguarda i governi, quello guidato da Giorgia Meloni è complice, responsabile. Il ministro Tajani ha mentito dicendo che aveva bloccato l’invio di armi a Israele e invece si è scoperto che ancora l’esercito di Israele viene armato; la nostra Costituzione dice che l’Italia ripudia la guerra, quando qui stiamo vedendo come il governo italiano sostiene ed arma Israele. Ma sbagliamo quando si dice che la responsabilità è solo del governo Meloni, poiché anche quelli che la hanno preceduta hanno sempre finanziato e sostenuto le politiche di Israele, lo ha fatto anche il PD. Ma non solo hanno continuato ad armare… e ritorno al 2021 quando a Gerusalemme marciavano i coloni e le forze d’occupazione irrompevano all’interno della moschea colpendo i fedeli con manganelli o lanciavano lacrimogeni, dall’altra parte c’erano i bombardamenti su Gaza, noi il 15 maggio 2021 abbiamo organizzato una manifestazione qui a Roma per solidarietà e per quello che stava accadendo in Palestina, mentre i politici italiani stavano al ghetto a esprimere la loro solidarietà a Israele. E se si consultano le foto, dalla destra alla sinistra politica c’erano dalla Meloni, a Salvini, a esponenti del PD. Quindi, è importante capire che il problema non è la Meloni ma tutti i politici che non fanno mai nulla di concreto per la Palestina e, anche quando si parla di soluzioni e si ripete che bisogna lavorare per una soluzione a due Stati, questa è una frase ripetuta a pappagallo. Inutilmente. Perché nessuno si è mai impegnato affinché venga riconosciuto lo Stato di Palestina. Tutti sono responsabili e complici del genocidio palestinese e del 7 ottobre in Israele, perché noi, alla domanda ‘se condanniamo Hamas’ abbiamo sempre risposto che, anche per quanto riguarda gli avvenimenti del 7 ottobre, la causa non è Hamas ma la responsabilità è della comunità internazionale, e dei governi che non hanno mai fatto nulla per prevenirlo; perché se l’Italia si fosse mobilitata, se l’Europa si fosse mobilitata quantomeno affinché venissero riconosciuti gli stessi diritti dei coloni israeliani ai palestinesi, non saremmo mai arrivati al 7 ottobre”.
- Il 12 aprile una veglia si tiene a Montecitorio a partire dalle 21:00 con la proiezione di cortometraggi e commemorazione delle vittime palestinesi uccise a Gaza.
Maya Issa, oltre a menzionare la veglia del 12 aprile, ha fatto riferimento anche a un prossimo evento:
“Il 17 aprile 2025 è la giornata dedicata ai prigionieri palestinesi, non so se riusciamo per quel giorno. Ma comunque, eventualmente, per la settimana seguente organizzeremo un dibattito. Nel corso di quest’anno abbiamo spesso parlato di Gaza e del genocidio dimenticandoci della situazione dei prigionieri palestinesi detenuti in Israele, un numero che si è triplicato nelle carceri dove vivono in condizioni disumane.”
Così si chiude la lunga intervista a Maya Issa, a tratti ricorda la caparbietà di fare della giornalista palestinese di ‘Al Jazeera’ Shireen Abu Akleh uccisa in Cisgiordania a Jenin da un attacco israeliano, mentre documentava con il caschetto con la scritta ‘Press’. L’unico dubbio che mi anima è che la sua genuinità per cui si presta alla causa palestinese non venga intercettata in futuro per strumentalizzarla, soprattutto se l’intenzione è di entrare da grandi, in contesti dove la politica è un braccio di ferro senza scrupoli a causa dei conflitti di interesse e speculazioni. I tentacoli del potere sono insidiosi, serve esperienza per accorgersene, per evitare che il proprio lavoro venga dirottato. Gli studenti sono molto esposti. Maya Issa ha tutto un futuro davanti, una famiglia che osserva i suoi passi sulla strada che ha scelto di percorrere. Sono orgogliosi, o preoccupati?
“E’ un mix, sicuramente sono orgogliosi e sono fieri di me, dall’altra parte sono sicuramente preoccupati, e vorrebbero che io mi dedicassi un po’ di più allo studio, forse. Aggiungerei di non smettere di parlare di Palestina perché abbiamo notato un po’ un calo fisiologico, non è un trend e non bisogna scendere in piazza solo quando ci sono bombardamenti su Gaza, e, anche noi solidali abbiamo una responsabilità in questo, non ci possiamo permettere di intervenire solo quando vediamo i bambini uccisi. Non dobbiamo chiedere solamente il cessate il fuoco ma la fine dell’occupazione; e soprattutto, guardare alla Palestina togliendo le lenti da colonizzatori. Solo questo.”
Grazie a Maya Issa.
(L’intervista a Maya Issa del 5 aprile viene pubblicata il giorno 12, con anche immagini riferite, appunto, alla veglia a Montecitorio del 12 aprile 2025 indicate nel corso della pubblicazione)
12 aprile 2025 – PAOLA MORA – Qui Radio Londra Tv
